03 Giugno 2021

"Il Pnrr? Un’occasione. Ma guai a buttar via la cultura degli standard"

Di NS
Parla l’ex ministro della Salute Renato Balduzzi: “I parametri territoriali sono un importante obiettivo del Piano. Bene le Case della comunità. L’integrazione sociosanitaria è imprescindibile”

di Paola Alagia

Con il Pnrr sono state compiute scelte giuste, ma ora occorre che le risorse vengano impiegate in modo corretto e non vengano dissipate. In sintesi, siamo di fronte a “un’occasione” per disegnare la sanità del domani, ma “proprio vista la disponibilità di tanti fondi, dobbiamo evitare di buttare via la cultura degli standard”. E’ questa l’analisi che fa con Nursind Sanità l’ex ministro della Salute e ordinario di Diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, Renato Balduzzi. Perché, mette in guardia il professore, “è questo il vero rischio e cioè che adesso che si respira di più, che si pensa di non essere più sotto l’occhio vigile della Ragioneria generale dello Stato, si riprendano antiche abitudini, finanziamenti a pioggia, inutili duplicazioni, logiche da 'amici degli amici'”.

Professore, partiamo proprio dalle risorse del Recovery. Parliamo di 20,22 miliardi per la salute. Li giudica sufficienti?
Direi di sì. La nostra sanità ha dimostrato complessivamente di reggere alla prova della pandemia, ma ha fatto emergere anche alcune criticità sulle quali è tempo di intervenire. Si tratta di criticità che, tra l’altro, la normativa già permetteva di limitare o attenuare. Tuttavia, è evidente, le leggi non bastano. Così come non basta la volontà di attuarle. Occorre che ci siano tutte le condizioni culturali e organizzative per poterle applicare.

A proposito di criticità, non le pare che una di queste sia stata la carenza di posti letto, discesa dalla riorganizzazione degli standard ospedalieri del Dm 70 del 2015 predisposto ai tempi del governo Monti?
Il numero dei posti letto di terapia intensiva e di rianimazione non è stato mai ridotto negli ultimi dieci anni. Non solo, ma anche nella fase più acuta dell’emergenza non abbiamo mai assistito ad una loro occupazione integrale, a parte le situazioni di grande criticità alle quali neanche la mobilità interregionale riuscì a dare risposta adeguata. Detto questo, adesso che è diventato più evidente che questa pandemia potrebbe non essere un’eccezione, è chiaro che dovremo avere riserve in più, e la possibilità, tra l’altro già contemplata nel Dm 70, di riconvertire posti al bisogno. Sento dire in giro, in modo generico, che va superato questo decreto. No, guai se ciò accadesse. Va forse aggiornato, ritoccato, come succede sempre per tutte le norme, ma superarlo sarebbe profondamente sbagliato.

Perché?
Aprirebbe la strada a quella dissipazione di risorse che ci farebbe fare passi indietro e ci condurrebbe dritti verso una destrutturazione del servizio sanitario nazionale, fiore all’occhiello del nostro Paese.

Torniamo alle criticità. Esclusi i posti letto, dove risiedono allora?
Le vere criticità le abbiamo riscontrate nella cosiddetta sanità territoriale.

La medicina di prossimità e quel processo di de-ospedalizzazione che era tra i capisaldi della riforma del 2012.
La filosofia di fondo che ha ispirato la riforma era proprio riorganizzare – che non significa operare dei tagli, questi lasciamoli al chirurgo – la rete sanitaria nel suo complesso. Quindi fissare finalmente degli standard per la sottorete ospedaliera così da trasferire nella sotto-rete territoriale, visto che la rete dei servizi sanitari è unitaria, risorse tali da consentire a quest'ultima di non essere più una cenerentola, di non essere più in affanno. Questo era il ragionamento che si fece nel 2012 quando noi di fondi non ne avevamo. Anzi, allora, il ministero della Salute dovette combattere per evitare che alla sanità non ne venissero tolti di ulteriori, come gli italiani che hanno un po’ di memoria ricordano perfettamente.

Quali sono le carenze della medicina territoriale?
La riforma della sanità territoriale è stata lasciata alla buona volontà di qualche medico e assessore regionale. L’attuazione, quindi, è a macchia di leopardo. E’ difficile fare stime, possiamo dire che c’è un 25-30 per cento di medici di famiglia che ha recepito in qualche modo le indicazioni della riforma e un restante 70-75 per cento che non l’ha fatto. Quanto alle carenze, mancavano e mancano tuttora gli standard. E quando parlo di standard non mi riferisco a criteri e parametri intoccabili. Gli aggiustamenti sono sempre possibili, l’importante è che le riforme si attuino. Le diro di più.

Prego.
Proprio sapendo quanto è difficile attuarle, avevo inserito una clausola nella riforma del 2012 che il Governo e il Parlamento avevano accolto.

Cosa diceva?
Che se entro 6 mesi dall’entrata in vigore della riforma Regioni e sindacati dei medici di famiglia non si fossero messi d’accordo, il Governo aveva l’obbligo di attuare la riforma stessa con provvedimenti provvisori. Salvo poi sostituirli con le clausole delle convenzioni.

Inutile chiederle, quindi, da cosa bisogna ripartire.
Nel Pnrr ci sono scelte giuste. Si prevedono tanto per cominciare appunto gli standard territoriali, un lavoro non facile.

Per quale ragione?
La difficoltà è legata innanzitutto alla definizione stessa dell’attività territoriale. Si ha a che fare con le attività assistenziali che sono ancora molto lontane dall’avere una codificazione adeguata a quella dei Lea (Livelli essenziali di assistenza sanitaria). Sono 20 anni, infatti, che il nostro ordinamento cerca di definire i cosiddetti Livelli essenziali di assistenza sociale. A tal proposito, vedo con soddisfazione l’indicazione del Pnrr di assegnare ad Agenas il compito di occuparsene perché questo permetterà di vincere anche questa battaglia. Il bisogno sanitario e quello sociale nella stragrande maggioranza delle situazioni si intrecciano. Ecco perché l’integrazione sociosanitaria è imprescindibile.

E’ fiducioso, insomma, che questa sarà la volta buona?
Le rispondo con un esempio. Quindici anni fa il nostro ordinamento aveva fatto una scelta importante, quella delle Case della salute, in cui medici di famiglia, specialisti ambulatoriali, infermieri di comunità e altre figure di professionisti sanitari assicuravano una prima risposta ai bisogni di salute. Purtroppo, poi, esse non hanno avuto una diffusione omogenea sul territorio nazionale. Bene, ora questo ragionamento è stato ripreso, ma con una marcia in più. L’anno scorso, nel decreto 33 di conversione della legge 77 del 2020, all’articolo 1 comma 4-bis è stata prevista una sperimentazione di strutture di prossimità per assicurare la piena integrazione sociosanitaria. Queste strutture adesso hanno un nome: nel programma del governo Draghi e nel Pnrr sono diventate le Case della comunità. Non si tratta solo di una denominazione diversa, c’è un cambiamento importantissimo di prospettiva perché la figura dell’assistente sociale non è più opzionale. E questo è fondamentale nella direzione di una vera integrazione. Certo, il rischio di scontrarsi con la resistenza delle categorie interessate c’è sempre.

E con le Regioni, che spesso abbiamo visto muoversi in ordine sparso e in contrasto con il Governo?
Si tratta di risalire al nucleo del problema che non è nelle norme. Il sistema normativo e costituzionale per gestire le emergenze c’è. Non a caso una Regione come la Valle d’Aosta, che ha provato a strutturare autonomamente la gestione del contrasto alla pandemia, è stata seccamente bocciata dalla Corte costituzionale. A riprova che non serve un nuovo Titolo V della Costituzione. C’è bisogno di avere autorevolezza politica e una capacità di coordinamento in senso forte. Proprio quello che sempre l’articolo 1 comma 4-bis assegna al ministero della Salute.

Cosa significa coordinamento in senso forte?
Che non si tratta di un’azione di mera vigilanza e smistamento di risorse. Un coordinamento forte significa indicare obiettivi, monitorare risultati e mettere in mora chi rimane indietro senza valide giustificazioni. Ed è ciò che serve. Anche perché solo in questo modo noi potremo evitare di dissipare delle risorse. Questa è l’ultima occasione che abbiamo. Non possiamo pensare, infatti, che l’Europa stia dietro a Paesi che prendono degli impegni e poi non li rispettano. Proprio in quest’ottica, torno a ripetere, dobbiamo assolutamente evitare di buttar via la cultura degli standard, riprendendo antiche sbagliate abitudini.