24 Settembre 2021

Aborto, la legge 194 sotto la lente degli operatori

Di NS
I dati della Relazione del Ministero e il parere degli esperti sul campo. Parlano Anna Pompili (Associazione Amica) e Filippo Boscia (Medici cattolici)

di Marta Tartarini

Aborto, psichiatria e servizio sanitario universale; tre grandi riforme in ambito sanitario che nel 1978 hanno cambiato il Paese. La legge 180 ha, fra l’altro, prodotto la chiusura degli ospedali psichiatrici, la legge 833 ha istituito il Servizio sanitario nazionale su base universalistica e solidale, la legge 194 ha disciplinato l’interruzione volontaria di gravidanza. Sono passati 43 anni, e ancora sulla legge sull'aborto la politica e gli stessi medici si dividono. Nursind Sanità ha deciso di fare un bilancio, a partire dai dati sulla sua attuazione diffusi il 16 settembre dal Ministero della Salute. Si tratta della Relazione che ogni anno viene trasmessa al Parlamento per fare il punto sul fenomeno sulla base dei dati raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica delle Ivg (Interruzioni volontarie di gravidanza), attivo dal 1980, che impegna l’Istituto superiore di sanità (Iss), lo stesso ministero della Salute, l’Istat e le Regioni.

I numeri: nel 2019 sono state effettuate 73.207 Ivg (- 4,1% rispetto al 2018), dato che ne conferma la costante diminuzione dal 1983. Dal 2014 il numero di Ivg è inferiore a 100.000 casi, ed è meno di un terzo dei 234.801 casi registrati nel 1983, anno in cui si è dato il valore più alto in Italia. Il numero è diminuito in tutte le classi d’età e in tutte le aree geografiche. Tra le minorenni, il tasso, sempre nel 2019, è pari a 2,3 su 1.000 donne, valore inferiore a quello del 2018. Le cittadine straniere continuano ad essere una popolazione esposta, con tassi di abortività più elevati di 2-3 volte rispetto alle italiane. Sono in diminuzione i tempi di attesa dell’intervento, pur persistendo una non trascurabile variabilità fra le Regioni, e si registra un aumento delle interruzioni entro le prime 8 settimane di gestazione, situazione, almeno in parte, dovuta all’aumento dell’utilizzo della tecnica farmacologica, che viene usata in epoca gestazionale precoce. Il ricorso all’aborto farmacologico, poi, varia molto tra le Regioni, sia per quanto riguarda il numero di interventi, sia per il numero di strutture che lo offrono. Il confronto nel tempo evidenzia, in tutti territori, un incremento continuo dell’uso del mifepristone e prostaglandine. 

Per quanto attiene l’obiezione di coscienza tra i medici, nel 2019 la scelta ha riguardato il 67% dei ginecologi, con un -2 % rispetto all'anno precedente, il 43,5% degli anestesisti e il 37,6% del personale non medico. Si tratta comunque, si legge nella relazione, di "valori in diminuzione rispetto a quelli riportati per il 2018, con ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie". L’analisi dei carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore, scrive ancora il Ministero alle Camere, "non sembra evidenziare particolari criticità nei servizi, a livello regionale o di singole strutture ospedaliere". 

In linea di massima, dunque, un quadro che appare positivo, ma che solleva alcune questioni che Nursind Sanità ha affrontato con le associazioni dei medici per fare un bilancio sull'applicazione della legge a 43 anni dalla sua approvazione.

Sul primo punto, quello della riduzione delle Ivg, Anna Pompili, co-fondatrice di Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto) e componente del Consiglio generale dell'Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, propone una lettura critica del dato: “La riduzione del numero degli aborti potrebbe in parte rispecchiare il ricorso a procedure al di fuori della legge, laddove l’accesso all’aborto è fortemente ostacolato. Nella stessa relazione si fa riferimento ad alcune strutture che hanno deciso autonomamente, in relazione all’emergenza Covid, di sospendere i servizi di Ivg. Certamente - prosegue - non ci convince la valutazione del fenomeno degli aborti cosiddetti clandestini, che viene definito stabile negli anni”. Come mai? “In primo luogo, perché se il numero degli aborti clandestini rimane stabile, a fronte di una riduzione costante del numero degli aborti, ne deriva un aumento percentuale delle procedure al di fuori della legge. In secondo luogo, riteniamo non aderente alla realtà la scelta di alcuni indicatori utilizzati dall’Istat per la stima del fenomeno, legati ancora alle possibili complicazioni della procedura chirurgica, ormai praticamente soppiantata dalla farmacologica, molto più sicura e quindi molto più difficilmente indagabile".

Nella relazione del ministro si sottolinea inoltre l’enorme impennata delle vendite dei contraccettivi di emergenza ormonali, pillola del giorno dopo e pillola dei cinque giorni dopo, che avrebbe concorso alla riduzione del numero delle Ivg. "A nostro avviso - spiega Pompili - le oltre 550 mila confezioni di contraccettivi di emergenza ormonali, vendute nel 2019, quando per le ragazze minori c’era ancora l’obbligo di prescrizione, sta ad indicare con forza la reale necessità di garantire per tutte e tutti l’accesso alla contraccezione sicura, che deve essere gratuita. Un obiettivo, questo, ancora molto lontano, con il paradosso che nel nostro Paese l'aborto è gratis, mentre la contraccezione si paga”.

Al contrario Filippo Boscia, presidente dell’Associazione medici cattolici, avverte che "in assoluto non è vero il dato della diminuzione degli aborti, molti dei quali sono farmacologici e sfuggono alla registrazione, mentre l’uso della pillola dei 5 giorni dopo e quello della pillola del giorno dopo, la cosiddetta contraccezione d'emergenza, di fatto agiscono in senso abortivo, spiazzando o intercettando l’uovo fecondato e impedendogli l’annidamento. E questi sono di fatto aborti nascosti, che sfuggono ad ogni possibile rivelazione epidemiologica".

L'aborto farmacologico inoltre viene valutato da Boscia come "una strategia politica per trasformare l'aborto da problema sociale a fatto privato. Una nuova organizzazione trasferisce l'Ivg dagli ospedali ai consultori e alle strutture ambulatoriali territoriali". Si tratta di una strategia "che impedisce l’esatta conta delle interruzioni di gravidanza precoci e che va pian piano allargandosi perché già sedici regioni si stanno muovendo per andare in questa direzione". 

Anche sulla obiezione di coscienza le letture divergono. Boscia ritiene che il calo sia "fisiologico, dovuto ai medici che lasciano il servizio per pensionamento" e sottolinea che comunque il fenomeno 'obiezione' "non crea difficoltà nelle strutture ospedaliere, e non limita i diritti delle donne. Basti pensare - sostiene il presidente dell’Associazione - che i medici non obiettori fanno nel pubblico 1,1 interruzione alla settimana. Il privato convenzionato invece giunge anche a farne 15 al giorno". Ci sono Regioni (Molise e Umbria ad esempio) che hanno più obiettori, nelle quali "si riferiscono maggiori tempi di attesa, tuttavia non per l'obiezione ma a causa di modalità organizzative che vanno riviste". In ogni caso, avverte, "quello dell'obiezione è un diritto di libertà che va preservato: i medici hanno diritto di porre obiezione e questo valga oggi per l’aborto, ma deve valere domani anche per l’eutanasia". 

Diversa l’interpretazione della ginecologa di Amica, che ricorda l’impegno della sua Associazione per la "piena applicazione della legge". Secondo Pompili, la seppur piccola riduzione delle percentuali di obiettori di coscienza è "un importante segnale di cambiamento. Riguarda certamente i ginecologi (nel 2019 il 67% contro il 69% del 2018), ma anche, e in misura maggiore, il personale sanitario non medico (nel 2019 il 37,6% contro il 42,2% del 2018). Nella mia attività di formazione nelle università - riferisce - percepisco con grande interesse l’emergere di una nuova tensione etica tra gli studenti e gli specializzandi, un interesse verso le motivazioni etiche dei medici che praticano le Ivg, e una richiesta di formazione che dobbiamo onorare e che è responsabilità delle Regioni e delle Università, come recita l’art. 15 della legge 194, ampiamente inapplicato”.

La rappresentante di Amica segnala quindi l’altro dato che emerge prepotentemente dalla relazione del Ministro, ossia le enormi differenze nella applicazione della legge tra le varie aree del Paese, non solo a proposito dell’obiezione di coscienza: anche se "non bisogna dimenticare che in alcune Regioni le percentuali dei ginecologi obiettori sfiorano il 90%, la più grave disparità - spiega - riguarda la possibilità di accedere alla procedura farmacologica per l’interruzione di gravidanza”.

“A fronte di una percentuale del 24,9%, che ci colloca tra gli ultimi fra i Paesi europei - denuncia -, si evidenziano picchi vergognosamente bassi, relativi alle Regioni i cui presidenti hanno chiaramente espresso la loro ostilità antiscientifica al metodo, che si traduce in una reale impossibilità per le donne di questi territori (Molise, Abruzzo, Marche, Provincia autonoma di Bolzano, Veneto, etc) di esercitare il loro diritto di scelta. Uno schiaffo ad universalità ed equità, principi fondanti del nostro sistema Sanitario nazionale. Crediamo che il ministro dovrebbe richiamare i presidenti di Regione ai loro doveri istituzionali e alle responsabilità che si sono assunti nei confronti di cittadine e cittadini dei loro territori”. 

Dunque, secondo Pompili , la legge resta "ampiamente inapplicata, anche se, a 43 anni dalla sua approvazione, andrebbe cambiata in molti suoi punti, forse addirittura riscritta, per superarne l’impostazione ideologica, in molte parti offensiva per la dignità delle donne e per il loro diritto all’autodeterminazione. La necessità di un documento redatto dal medico per accedere all’Ivg, l’imposizione di un periodo di riflessione di sette giorni sono solo alcuni esempi di come, in fondo, la legge attribuisca alle donne una cittadinanza di serie B”.

Per Boscia, invece, la legge è da "considerarsi iniqua perché di fatto ha depenalizzato l'aborto volontario, senza mai intervenire sulle cause che determinano la richiesta di aborto e senza che mai alcuno si sia occupato delle conseguenze e delle complicanze: la sindrome post abortiva, ad esempio, è stata molto sottovalutata". Nei fatti, in questi anni, accusa, si è "sempre più diffuso l'aborto farmacologico con l’obiettivo primario di alleggerire e decongestionare le strutture ospedaliere, mai pensando a quelle donne che, costrette ad abortire a casa, restano in totale solitudine, prive di alcun sostegno, ma anche della possibilità di ripensarci".