27 Ottobre 2021

Sanità territoriale: il Pnrr detta i tempi della rivoluzione

Di NS
Case e Ospedali di comunità, ma non solo. Dalle Centrali operative agli infermieri di famiglia, ecco come sarà l’assistenza che cerca di avvicinarsi ai cittadini. Le scadenze però premono

di Ulisse Spinnato Vega

La direzione è chiara, ma i tempi stringono. L’obiettivo chiave è apprendere la lezione impartita dalla pandemia e rendere l’assistenza sociosanitaria territoriale più robusta, capillare e vicina ai cittadini, con punti di accesso chiari e con un approccio d’équipe multidisciplinare e integrato. Gli strumenti, a loro volta, stanno prendendo forma, corroborati dai finanziamenti del Pnrr: al centro c’è il Distretto sociosanitario che copre circa 100mila abitanti e che con il suo braccio armato, la Centrale operativa territoriale, coordina e sovrintende diverse strutture: le Case della comunità “hub” (una ogni 40-50mila abitanti che ricomprende anche le Cdc cosiddette “spoke”, presenti soprattutto nelle aree interne e rurali); almeno un Infermiere di Famiglia e Comunità ogni 2-3mila abitanti; almeno una Usca (Unità speciale di continuità assistenziale) con un medico e un infermiere ogni 100mila abitanti; almeno un Ospedale di comunità (Odc) dotato di 20 posti letto ogni 50-100mila abitanti; una Unità di Cure Palliative Domiciliari (Ucp-Dom) ogni 100mila abitanti e un hospice con almeno 10 posti letto all’interno della rete aziendale delle cure palliative. Senza dimenticare il rafforzamento della Centrale operativa 116117, Numero Europeo Armonizzato per le cure mediche non urgenti (almeno una per ogni 1-2 milioni di abitanti) e il Dipartimento di Prevenzione (uno ogni 500mila abitanti) specializzato nella cosiddetta medicina ambientale.

Naturalmente, al di fuori delle cure domiciliari in senso stretto e della telemedicina, l’interesse maggiore è concentrato sulle Case e sugli Ospedali di comunità, dei quali tratta diffusamente il documento Agenas-Ministero della Salute per lo sviluppo dell’assistenza territoriale che presto sarà all’attenzione delle Regioni. Il Recovery plan – Missione 6 Componente 1 – destina 2 miliardi alle prime e 1 miliardo ai secondi, ma al tempo stesso pone una condizionalità chiara sui tempi di traguardi e obiettivi da raggiungere: entro il 30 giugno 2022 è previsto il decreto del Ministero della Salute che dovrà riorganizzare l’assistenza sanitaria territoriale. E alla stessa data dovranno essere approvati, tramite Agenas, i contratti istituzionali di sviluppo sia per le Case che per gli Ospedali di comunità. A metà del 2026, invece, le Case della comunità, 1288 in totale, dovranno andare a regime. 

Il modello “hub and spoke” punta a rafforzare equità di accesso, prossimità e qualità dell’assistenza alle persone, indipendentemente dall’età e dal loro quadro clinico, per una presa in carico olistica che tenga conto delle preferenze e delle esigenze del singolo. Dunque, negli intenti del Governo, realizzare la Casa della comunità, con le aggregazioni della medicina generale e della pediatria di famiglia (Aft e Uccp), dovrebbe consentire ai cittadini di avere luoghi visibili e facilmente raggiungibili, parte integrante della collettività, in cui trovare risposte immediate, con benefici in outcome sul piano della salute della popolazione e del contenimento dei costi sanitari.

Non per niente si prevede che le Case della comunità hub garantiscano una presenza medica ed erogazioni diagnostiche 24 ore su 24, mentre le spoke saranno aperte 12 ore al giorno e sei giorni su sette, fornendo un minimo obbligatorio di servizi medici e infermieristici e in ogni caso rendendo disponibile il Sistema integrato di prenotazione collegato al Cup aziendale. Altre differenze consistono nell’obbligo per le Case hub di erogare servizi diagnostici sulla cronicità, continuità assistenziale e un punto prelievi, funzioni che sono soltanto facoltative per le Cdc spoke. Nelle Case della comunità lavorano in team medici di medicina generale e pediatri di libera scelta (che però possono mantenere i loro studi distinti e affiancati), in collaborazione con gli infermieri di famiglia e di comunità (ifec), gli specialisti ambulatoriali e professionisti sanitari come logopedisti, dietisti, fisioterapisti, tecnici della riabilitazione, psicologi e altri. Qualora serva, anche cardiologi, diabetologi o pneumologi. Allo scopo di un maggiore coordinamento con i servizi sociali comunali, possono essere presenti anche gli assistenti sociali.

Certo, il nuovo sistema fondato sull’integrazione e la valorizzazione delle diverse discipline e professionalità si scontra con la carenza cronica di personale, medici e infermieri in testa. La legge contempla, ad esempio, l’ulteriore disponibilità di 9.600 Infermieri di famiglia, ma manca ancora una definizione precisa di ruolo e competenze della neonata figura. Un tema, questo, che non potrà non entrare nella discussione sul rinnovo del contratto di comparto. Inoltre, le 1.280 nuove Cdc dovrebbero sorgere dalla ristrutturazione o rifunzionalizzazione di complessi già esistenti come presidi ambulatoriali obsoleti o reparti ospedalieri da riconvertire. Ma vengono messe in conto anche nuove costruzioni e non sono mancate le polemiche circa il rischio di un altro sacco edilizio, stavolta in chiave sanitaria.

C’è comunque un dato ineludibile: 23 milioni di italiani soffrono di forme di cronicità semplice e vanno seguiti proattivamente per ridurre il rischio di un passaggio verso condizioni di maggiore complessità clinica e assistenziale. In Italia, nel 2019, era stato preso in carico solo il 5% degli over 65. L’obiettivo del Pnrr è di allargare l’assistenza domiciliare e dunque il presidio territoriale fino ad arrivare al 10% entro la metà del 2026: si tratta di 800mila persone in più rispetto alla platea attuale. Numeri non da poco. Peraltro, un recente studio dell’Agenzia sanitaria dell’Emilia Romagna sulle Case della salute (progenitrici della Casa della comunità) ha dimostrato un impatto robusto della loro presenza sugli accessi al Pronto soccorso (-16,1%), ancor più significativo nei pazienti assistiti da medici di medicina generale che svolgono la loro attività parzialmente o completamente all’interno delle Case (-25,7%).

L’altra grande sfida dell’assistenza territoriale in chiave Pnrr è quella degli Ospedali di comunità, che il Piano di ripresa e resilienza colloca nella dimensione delle cure intermedie. Si tratta di strutture sanitarie a tutti gli effetti destinate a pazienti che, a seguito di un episodio acuto minore o della riacutizzazione di condizioni croniche, necessitano di interventi clinici a bassa intensità e di breve durata. Dunque, un ulteriore presidio prima della ospedalizzazione vera e propria. Il Piano prevede 381 poli in tutta Italia (Lombardia in testa con 64). Considerando che, come previsto dall’intesa Stato-Regioni del 20 febbraio 2020, ogni Odc è dotato di 20 posti letto, il progetto dovrebbe crearne circa 7600 complessivi. Gli Ospedali di comunità potranno avere una sede separata o essere ubicati in contesti sanitari polifunzionali, presso presidi ospedalieri riconvertiti, strutture residenziali oppure potrebbero trovarsi in un complesso ospedaliero vero e proprio. In ogni caso, si tratta di uno snodo cruciale dell’assistenza territoriale.

Tra le altre articolazioni del nuovo assetto, meritano una menzione le Centrali operative territoriali (Cot), per le quali è previsto un investimento specifico da 280 milioni di euro. La loro dimensione, come detto, corrisponde a quella dei distretti (una ogni 100mila abitanti) e hanno uno standard minimo di personale di 5 infermieri di famiglia e comunità e un coordinatore. L’obiettivo primario delle Cot è assicurare accessibilità e integrazione dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria: coordinano la presa in carico della persona tra i servizi, ottimizzano gli interventi, tracciano e sorvegliano le transizioni dell’assistito, forniscono supporto logistico ai professionisti, monitorano anche attraverso la telemedicina, gestiscono le interazioni dentro le Case della comunità e tra esse, ma anche tra le Cdc e gli altri presidi sanitari.  

Insomma, la sfida di avvicinare l’assistenza sanitaria al cittadino è enorme e complessa. Ma la pandemia ha imposto un cambio di paradigma non più rinviabile.