16 Marzo 2022

"Professione con poco appeal? Gli infermieri meritano veri riconoscimenti di carriera"

Di NS
Rosaria Alvaro, docente di Scienze infermieristiche a Tor Vergata, parla a Nursind Sanità: "Le università fanno quello che possono". Sul nuovo contratto: "La quinta area? Vedremo"

di Ulisse Spinnato Vega

Una professione dura, difficile, poco valorizzata e quindi poco allettante per i giovani, nonostante tutta la retorica legata alla pandemia. "Sa qual è il vero paradosso che riguarda gli infermieri? Oggi abbiamo più iscritti al primo anno in medicina che in scienze infermieristiche, 21mila contro 17mila. Eppure dovremmo vedere a regime un medico ogni cinque infermieri e invece rischiamo di andare incontro a una piramide rovesciata”, spiega a Nursind Sanità Rosaria Alvaro, docente ordinario di Scienze infermieristiche all’Università Tor Vergata di Roma, nella fase calda della trattativa all'Aran sull rinnovo del contratto di comparto. "Si dice ci sia carenza di medici, ma non è vero: mancano gli specialisti per i problemi del sistema delle scuole di specializzazione, ma non mancano i medici. Al contrario, abbiamo urgente bisogno di infermieri con competenze avanzate che poi, comunque, non vengono riconosciuti contrattualmente".

Professoressa, le università sono finite a volte sul banco degli imputati per i pochi posti messi a disposizione: sul 2021-2022 un quarto in meno, circa 17mila appunto, rispetto agli oltre 23mila richiesti da Regioni e ordine professionale.
Gli atenei hanno messo a disposizione il massimo dell’offerta sostenibile. Ciascuno di essi ha chiesto riscontro ai ministeri e i ministeri hanno accettato questi numeri. Significa che se non aumentano le strutture, anche di docenza, non possono aumentare ulteriormente i posti.

Mancano i fondi?
Il problema sta nelle articolazioni decentrate che dovrebbero far parte della rete formativa e che possono essere sedi di laurea, mi riferisco ad aziende sanitarie, ospedaliere oppure agli Irccs. Senza finanziamenti ad hoc, di cui c’è carenza soprattutto in alcune Regioni, non possono accollarsi le spese per studenti, docenti, personale e tutto ciò che serve per attivare una sede. Magari mettono a disposizione i tirocini che comunque sono di supporto alle attività ordinarie, ma tutto il resto chi lo paga? Le università hanno pure abbassato i requisiti di docenza e ci hanno dato la possibilità di inserire personale esterno professionalizzante dell’area infermieristica, risparmiando sulle docenze accademiche. Ma la coperta è in ogni caso corta.

Sul piano dell’offerta formativa c’è una carenza di infermieri docenti?
Sono troppo pochi, consideri che attualmente ne abbiamo appena 51, con il rapporto di un docente ogni 1.400 studenti. Per darle un termine di paragone, abbiamo invece un docente inquadrato nell’odontoiatria ogni sei studenti. La conseguenza è che la formazione in Italia è a macchia di leopardo.  

C’è in definitiva un problema di appeal della professione. Si è tentato pure di abbassare gli standard di selezione per attirare più iscritti?
No, il vulnus è che non c’è possibilità di carriera e manca una vera valorizzazione contrattuale: la Fnopi lo dice da tempo e a tutti i tavoli. L’infermiere entra in ospedale con la laurea triennale e può fare un master di primo livello. Ma la legge del 2006 deve ancora trovare piena applicazione negli accordi.

Nel 2018, però, fu fatto un passo avanti
Sì, l’Aran ha dato mandato all’Osservatorio delle professioni sanitarie di individuare i master per l’expertise clinica e si è arrivati al riconoscimento di 92 corsi, di cui otto per gli infermieri. Ma servirebbe una tabellazione dei master stessi e il riconoscimento della formazione pregressa, oltre al dovuto inquadramento professionale e al giusto sviluppo di carriera che oggi non c’è.

La nuova quinta area (“elevate professionalità”) inserita nell’ultima ipotesi di contratto può essere una soluzione?
Bisogna capire come viene applicata. Dovrebbe poter modificare l’organizzazione e portare al riconoscimento contrattuale delle competenze avanzate. Noi docenti abbiamo pure proposto di caratterizzare la laurea magistrale, per esempio con l’indirizzo clinico. Per come funziona oggi, io parto dalla triennale, poi conseguo il master clinico di primo livello e poi la magistrale, ma questo percorso si sviluppa solo sulla possibilità di fare il dirigente. Invece, con l’indirizzo clinico, potrei essere responsabile dei processi clinici nelle diverse aree di competenza e potrei accedere alle specializzazioni cliniche. Un percorso che andrebbe riconosciuto anche all’infermiere, come accade per biologi o statistici.

Insomma, una vera rivoluzione.
Con un indirizzo clinico e uno organizzativo, le lauree magistrali consentirebbero prospettive di carriera nella dirigenza sia con riguardo alla direzione dei servizi infermieristici sia sul terreno clinico. Serve, insomma, una valorizzazione non soltanto nell’ambito del coordinamento. La legge 43 scatenò a suo tempo la corsa ai master clinici, ma ora si punta di più a quelli di coordinamento e dunque si riduce l’incentivo.

Insomma, senza soldi, programmazione e volontà politica non se ne esce?
Pesa una riduzione fisiologica degli iscritti per il naturale calo demografico della generazione nata nei primissimi anni 2000, in più parliamo di una professione difficile, pesante e che non è valorizzata nemmeno dal punto di vista dell’immagine o del prestigio sociale. Solo con la pandemia qualcosa è cambiato in questo senso.

Sì, con tutta la retorica sugli “eroi” del Covid. Ma intanto i dirigenti infermieri continuano a mancare pure al ministero della Salute.
Abbiamo dei rappresentanti in Agenas o all’Iss, per fare due esempi. Diciamo che la pandemia ha costretto tutti a mettere gli infermieri al tavolo. Si va consolidando la presenza, anche perché nell’ultimo decennio abbiamo alzato moltissimo il livello, grazie a infermieri con dottorati di ricerca o con docenze universitarie. Stiamo via via entrando nella stanza dei bottoni, è questione di tempo.

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