21 Dicembre 2022

Infermiere di famiglia, una boccata d'ossigeno anche per i Pronto soccorso

Dove già c'è, la figura fa la differenza. Lorena Martini (Agenas) a Nursind Sanità: "Decisiva nel cambio di modello di assistenza territoriale". Fnopi chiede una formazione adeguata con laurea specialistica

Di Giovanni Cedrone
Infermiere di famiglia, una boccata d'ossigeno anche per i Pronto soccorso

L’infermiere di famiglia e comunità sarà una delle figure chiave nella sanità territoriale che sta per nascere con la riforma contenuta nel Dm77 e varata grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Avrà, infatti, non solo il compito di assicurare l’assistenza infermieristica, ma anche quello di interfacciarsi con tutti gli attori e le risorse presenti nella comunità per rispondere a nuovi bisogni, attuali o potenziali.

La rivoluzione sarebbe potuta già partire con il decreto Rilancio n. 34 del 2020 ma - come hanno certificato la Corte dei Conti e un’indagine Agenas - dei circa 9600 infermieri di famiglia e comunità da assumere ne sono stati reclutati molti meno: 1.062 secondo Agenas, 1.380 secondo la Corte dei Conti. Il risultato, comunque, non cambia: troppo pochi per realizzare il cambiamento atteso e già immaginato nel corso delle fasi più calde della pandemia da Covid-19.

Più infermieri di famiglia, meno accessi impropri ai Pronto soccorso
Eppure, sul campo, ci sono stati risultati importanti: nelle Regioni dove l’infermiere di famiglia e comunità è ormai strutturato da tempo, come Toscana, Piemonte e Friuli Venezia Giulia, i codici verdi e bianchi ai Pronto soccorso sono diminuiti. Segno che la nuova figura, lavorando in team con Mmg (medici di medicina generale) e altri professionisti della sanità, riesce a creare quel filtro che consente di diminuire gli accessi impropri e far respirare l’emergenza-urgenza. Secondo dati della Fnopi, in Friuli Venezia Giulia, dove il profilo c’è già dal 2004, si è registrata una riduzione del 10% degli accessi impropri e un intervento più rapido del 30% da parte delle Asl. Numeri che certamente non sono stati trascurati nella stesura del Dm77 che definisce la nuova sanità territoriale.

E su questo fronte intende muoversi pure Agenas, che conferma il trend positivo: “Nelle nostre linee guida abbiamo previsto anche indicatori di processo, di impatto e di risultato. Avvieremo una ricerca che mette insieme i flussi centrali nazionali, da quello dell’emergenza urgenza al flusso dell’assistenza domiciliare, per capire quanti pazienti presi in carico dalla sanità territoriale vanno poi in Pronto soccorso”, spiega a Nursind Sanità Lorena Martini, dirigente delle Professioni sanitarie infermieristiche di Agenas.

“Questa figura – continua Martini - è vincente se riesce a intercettare i bisogni della persona. Se noi vogliamo lasciare il Pronto soccorso libero di concentrarsi sulle acuzie e sulle vere emergenze c’è bisogno che il territorio funzioni, facendosi carico delle problematiche dei pazienti. Penso anche a interventi come la prenotazione di ausili sanitari per una persona anziana con cronicità: in tal caso, con l'aiuto dell'infermiere di famiglia si possono evitare tanti passaggi”.

Regioni in ordine sparso
Ma ad oggi non c’è un solo paradigma della figura. Sebbene ora anche il Dm77 ne definisca le funzioni, le Regioni al momento continuano ad impiegarla in modi differenti. “Ogni Regione, se non ogni azienda sanitaria, sta immaginando l’infermiere di famiglia e comunità in modo difforme. In alcune fa solo interventi di assistenza domiciliare integrata, in altre solo interventi di natura preventiva o da collettore di risorse verso il terzo settore”, spiega a Nursind Sanità Nicola Draoli, del Comitato centrale Fnopi.

E la conferma di ciò arriva anche da Agenas: “In effetti ancora non c’è un profilo definito – ammette la dottoressa Martini -. Noi abbiamo lavorato alla scrittura del Dm 77. Siamo partiti da una revisione di letteratura insieme all’Università di Torino, andando a vedere in ambito europeo il tipo di formazione e di modello organizzativo che c’è per questo profilo. Abbiamo realizzato un’indagine conoscitiva tra aprile e giugno 2021. L’infermiere di famiglia dev’essere una figura che mette insieme diversi professionisti con la rete dei servizi, crea interconnessioni professionali con gli Mmg, con gli specialisti ambulatoriali, con gli specialisti ospedalieri, ma anche con il terzo settore e il sociale”. In sintesi, "è un ruolo che ha una grande potenzialità, può realizzare una sanità di iniziativa. Può fare la differenza nel cambio di modello di assistenza territoriale”, aggiunge Martini.

Il nodo della formazione
Ma a preoccupare è anche la questione della formazione, dato che al momento non è chiaro che tipo di percorso bisogna seguire per acquisire la qualifica. “Gli interventi di prevenzione comunitaria non si fanno con tre anni di università e nemmeno con il master. Servono competenze che noi immaginiamo si possano ottenere con una laurea specialistica o magistrale”, sottolinea ancora Draoli.

Intanto, sono partiti alcuni master universitari (è il caso di Siena, ad esempio) e diverse aziende sanitarie stanno realizzando formazione interna. Ma ancora è lontana una uniformità che invece si potrebbe ottenere con una norma nazionale. I progetti di legge presentati nella scorsa legislatura, naturalmente, sono decaduti e nella nuova al momento non c'è traccia di proposte sul tema. E' a questo punto essenziale omogeneizzare, sulla base di criteri precisi,i percorsi di specializzazione clinica.

“La chiave dell’assistenza domiciliare sono gli infermieri,accanto alle persone h24, e le stesse associazioni di cittadini-pazienti chiedono siano di più e più presenti proprio nel nuovo modello di prossimità delle cure. In questo senso è prioritaria la figura dell’infermiere di famiglia e comunità, come anche indica il Dm 77/2022”, evidenzia a Nursind Sanità la presidente Fnopi Barbara Mangiacavalli che pone l’accento sulla formazione: “È necessario dare spazio il più velocemente possibile al nuovo profilo per l’assistenza sul territorio, anche prevedendo percorsi formativi ad hoc diffusi in tutte le Regioni: l’infermiere di famiglia e comunità non è una figura improvvisata, ma un professionista preparato per poter assistere al meglio i pazienti fragili e le loro famiglie”.

Il problema della carenza
Se però gli infermieri di famiglia e comunità previsti con il decreto Rilancio del 2020 non sono stati ancora, come detto, in gran parte reclutati, ci si chiede dove si troveranno tutti quelli previsti dal Dm77, che sono 20mila, uno ogni 3mila abitanti. Ovviamente, non tutte le Regioni partono da zero: in Toscana ed Emilia Romagna - dove ci sono le Acot (Agenzia di continuità ospedale-territorio) e questa figura è in parte già prevista - sarà più facile mettere in pratica il Dm77. Ma nei territori che sono indietro bisognerà i tempi potrebbero essere lunghi. Senza contare poi che all’appello mancano complessivamente, secondo le stime Fnopi, 65mila infermieri, di cui ben 17mila nelle terapie intensive.

Un problema non da poco. Come si fa dunque a reperire i professionisti per il territorio? Dalla Federazione fanno sapere che si potrebbe lavorare su una revisione del fabbisogno delle singole aziende, cercando di capire se c’è la possibilità di spostare risorse. Altro personale infermieristico si potrà liberare attraverso lo “skill mix” con le altre professioni, ampliando le competenze, o proiettando sul territorio infermieri specialisti che potrebbero continuare a seguire il paziente anche dopo l’ospedalizzazione. E’ evidente, insomma, che è sul personale che si gioca la riuscita della riforma dell’assistenza sanitaria territoriale.

 

 

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