Salute mentale, è allarme sommerso: due milioni di italiani senza cure
La rete dei Dipartimenti: "Servono due miliardi in più e più personale". Bisogna "ridefinire la quota di spesa per l'assistenza psichiatrica, in calo in media al 2,5% del Fondo sanitario regionale e nazionale"

Da Cenerentola della sanità pubblica, a fantasma nei lavori del G7 Salute, stretta tra risorse economiche scarse, poco personale e una crescita del disagio psichico, la salute mentale è sempre più in affanno, con una preoccupante quota di sommerso, ovvero di italiani che dovrebbero essere seguiti dai servizi di cura e non lo sono, pari a circa a due milioni di persone. A lanciare l'allarme, in vista della Giornata mondiale, sono i Dipartimenti di salute mentale che, con 150 incontri previsti in tutta Italia, chiedono risorse adeguate e un aumento dell’organico per un rinnovato modello organizzativo e dei rapporti con l’autorità aiudiziaria, mentre in Senato è stato avviato, con un ciclo di audizioni, l'esame del disegno di legge Zaffini che ha l'obiettivo di riformare l'assistenza psichiatrica sul territorio.
A parlare del sommerso sono i numeri: "Secondo le stime epidemiologiche, a soffrire di disturbi psichici, sarebbe almeno il 5% della popolazione, pari a circa 3 milioni di persone, percentuale che sale al 10% se si includono anche i disturbi più lievi, come ad esempio gli attacchi di panico - osserva Giuseppe Ducci, vicepresidente del Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di salute mentale e direttore del Dipartimento di salute mentale e delle dipendenze patologiche della Asl Roma 1 -. Le persone con disturbi mentali prese in carico nel 2023 dai servizi sanitari pubblici sono state in Italia oltre 770mila, pari all'1,5% della popolazione. Ciò significa che, considerando solamente i disturbi più gravi, c'è un 3,5% di persone, equivalente a oltre due milioni di cittadini, che non ha accesso ai servizi. A pesare è la paura dello stigma, ma anche la difficoltà stessa delle strutture nel prenderli in carico e a pagare il prezzo più alto sono le categorie più fragili. Le fasce sociali più svantaggiate, donne, anziani, ma soprattutto bambini e adolescenti, sempre più vittime delle dipendenze da sostanze, ansia, depressione, e disturbi del neuro-sviluppo che nel 50% dei casi risalgono già alla gravidanza".
"La salute mentale in Italia ha fatto significativi passi avanti a partire dalla legge 180, conosciuta come legge Basaglia, di cui si festeggiano quest'anno i 100 anni dalla nascita, che ha promosso un approccio comunitario, fondato sul rispetto della soggettività e dei diritti della persona - afferma Fabrizio Starace, presidente del Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di salute mentale e direttore del Dipartimento di salute mentale di Modena -. Tuttavia, i cambiamenti sociali ed epidemiologici degli ultimi decenni e la nascita di nuovi bisogni, come ad esempio il dilagare dell’abuso di sostanze e dei disturbi dello spettro autistico, impongono di rilanciare e ridisegnare i DSM per aggiornare e migliorare la qualità dell’assistenza psichiatrica in tutte le fasce di età a partire da quella neonatale, con un aumento delle risorse e di investimenti sul personale per un nuovo modello organizzativo dei DSM che includa i servizi per l’età evolutiva e per le dipendenze, presenti solo nella metà dei dipartimenti".
Questa, in estrema sintesi, la proposta lanciata dal Collegio nazionale, una rete nazionale di 120 direttori, insieme per la prima volta in un organismo unitario, in rappresentanza delle esigenze e delle difficoltà di tutte le professionalità operanti nei DSM, dei pazienti e dei loro familiari.
“Uno dei problemi più urgenti per i servizi di salute mentale in Italia è la scarsità di risorse economiche e professionali. Chiediamo che almeno il 5% del Fondo Sanitario Nazionale e Regionale venga destinato alla salute mentale, più percentuali specifiche per l'infanzia e l’adolescenza (2%) e per le dipendenze (1,5%). Un investimento che darebbe un grande ritorno sul piano assistenziale, oltre a essere un volano di sviluppo del Paese fortissimo pari ad almeno il 2% del Pil - osserva Ducci –. È dunque indispensabile per la stessa sopravvivenza dei DSM, ridefinire la quota di spesa per l’assistenza psichiatrica, oggi in calo in media al 2,5% del Fondo sanitario nazionale e regionale, pari a poco più di 3 miliardi e mezzo che rendono l’Italia fanalino di coda in Europa tra i Paesi ad alto reddito. Per raggiungere il 5% previsto dalla conferenza unica Stato-Regioni solo per la salute mentale degli adulti, servono almeno 2 miliardi in più, essenziali per garantire l’adeguamento degli organici agli standard ministeriali”. Nei DSM, sono presenti circa 25mila operatori tra psichiatri, psicologi, infermieri e educatori, cioè 55 per ogni 100mila abitanti, oltre il 30% in meno rispetto a quanto previsto dagli standard Agenas, recepiti in Conferenza Unica Stato-Regioni e sottoscritti dal ministero della Salute, che prevedono 83 operatori ogni 100mila abitanti.
Accanto al nodo economico, gli esperti però chiedono anche un cambio di passo sui modelli organizzativi, dal momento che solo al 12% dei ragazzi con disturbo psichico si riesce a garantire continuità di cure tra infanzia ed età adulta: "Solo la metà delle regioni garantisce la continuità delle cure tra infanzia ed età adulta per bimbi e ragazzi affetti da disturbo psichiatrico -prosegue Starace -. In Italia, infatti, appena il 12% dei giovani passa ai servizi di salute mentale per adulti, dopo aver raggiunto il limite di età massimo per le cure pediatriche”. "L’integrazione tra salute mentale per adulti, dipendenze patologiche e servizi per l’età evolutiva - aggiunge Ducci - è, dunque, una soluzione organizzativa necessaria per facilitare la transizione tra i servizi per minori e adulti, modello attualmente applicato solo in alcune regioni, mentre va esteso a livello nazionale". Ma sollveano anche un terzo aspetto critico: il rapporto tra disturbi psichici e il sistema della giustizia. La priorità da questo punto di vista è evitare il rischio di un ritorno al passato con la psichiatria usata come strumento di custodia e controllo sociale, anziché di cura.
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