14 Luglio 2025

Dazi Usa: il pharma italiano punta sul negoziato, ma guarda ad altri mercati

Il settore esporta 10 miliardi di euro negli States su 54 totali. Per Farmindustria bisogna discutere con Trump fino alla fine, evitando le contro tariffe. Ma intanto crescono soprattutto la Cina e il Sud America come sbocchi alternativi

Di Ulisse Spinnato Vega
foto di  Ivan Karpov
foto di Ivan Karpov

Se oltre alla faccia feroce di Donald Trump, alla fine arrivasse davvero la stangata dei dazi Usa, allora un importante settore dell’economia e dell’export italiani come il farmaceutico dovrebbe giocoforza rivolgersi ad altri mercati per attutire il colpo e limitare l’emorragia di fatturato. In ballo ci sono oltre 10 miliardi di euro di esportazioni verso gli States su circa 54 miliardi totali di produzione che va oltreconfine. Ma le imprese del comparto, almeno le maggiori, sembrano già ben attrezzate per diversificare, puntando soprattutto su America Latina e Asia, oltre che sul resto dell’Europa.

Va detto che il pharma finora è rimasto a dazi zero, vista la delicatezza cruciale che lo stesso presidente Usa gli riconosce. “The Donald” punta a riportare le produzioni negli Stati Uniti, ma a parte l’incertezza perdurante che ritarda comunque ogni mossa di investimento, i processi di reshoring industriale sono lenti e richiedono diversi anni. Ecco perché l’inquilino della Casa Bianca, pur minacciando roboanti tariffe al 200%, ha concesso un anno e mezzo per eventuali intese. Dunque, la mazzata è quantomeno rinviata: si tratterebbe però di una botta pesantissima visto che il totale dell’export farmaceutico Ue verso gli States vale quasi 120 miliardi di euro.

Se dazi al 10% potrebbero causare una perdita di ricavi inferiore ai 400 milioni di euro per il chimico-farmaceutico italiano, già al 20% il salasso varrebbe oltre 800 milioni. Ma tariffe sulle medicine importate in Usa al 30%, combinate alla debolezza del dollaro, costerebbero addirittura oltre 4 miliardi per il made in Italy di medicinali e presidi sanitari.

Marcello Cattani, presidente di Farmindustria, predica prudenza: gli Usa restano un alleato fondamentale, quindi secondo l’associazione confindustriale bisogna evitare, da parte Ue, la linea dura finché c’è spazio di negoziato. I contro-dazi, infatti, punirebbero due volte le imprese italiane, le cui filiere produttive spesso viaggiano ripetutamente da una sponda all’altra dell’Atlantico prima di giungere al prodotto finito.

Inoltre, i grandi player del settore approfittano del delicato momento per mettere in evidenza quello che non funziona all’interno dei confini europei, a partire dal quadro regolatorio Ue particolarmente complicato e dalle cosiddette barriere non tariffarie, come il meccanismo del payback che le imprese italiane contestano duramente e che quest’anno costerà al comparto tre miliardi di euro. Poi pesano le lungaggini autorizzative che precedono l’accesso al mercato, con una attesa media di circa 14 mesi. Oppure il nodo dell’allungamento dei tempi della proprietà intellettuale per tenersi competitivi, sostiene Farmindustria, rispetto a Usa e Cina.

Certo, se alla fine la situazione dovesse precipitare, se dopo questo periodo di enorme incertezza e volubilità americana, con posizioni sempre fluide e cangianti, il negoziato dovesse andare male, l’industria farmaceutica italiana non potrebbe che guardare ad altri mercati, EuropaCina e Sud America in testa. Prendendo in esame alcuni dei grandi nomi del pharma italiano, ad esempio Menarini ha sedi in Italia, ma anche a Barcellona e Singapore, produce tra l’altro a Istanbul, Wuhan (Cina), Giacarta, Kaluga (Russia) e Città del Guatemala. E fa segnare una presenza forte sui mercati esteri a partire da Brasile, Argentina e Messico.

Angelini, invece, potrebbe sfruttare e potenziare il sito di produzione americano di Albany, in Georgia, per aggirare le tariffe trumpiane. L’export di Angelini Pharma è comunque molto forte in Ue, a partire da Polonia e Penisola Iberica. Bracco realizza invece addirittura l’88% del suo fatturato da 1,7 miliardi sui mercati stranieri. La produzione spazia da Svizzera e Canada a Cina e Giappone. Con centri di ricerca nel Regno Unito, Germania, Usa e ancora Cina. Mentre Kedrion Biopharma, per citare un ulteriore caso, ha una presenza globale con società affiliate in Europa, Uk, Nord America, America Latina e Asia.

In conclusione, l’export farmaceutico è cresciuto enormemente negli ultimi dieci anni. Il settore un tempo era deficitario con l’estero, ma adesso rappresenta uno dei nuovi surplus delle nostre produzioni. Circa due terzi delle esportazioni vanno verso l’Europa, gli Usa pesano per il 14%, ma una destinazione come la Cina (6%) sta salendo rapidamente, così come altre nazioni extra continentali. Adesso vedremo cosa scaturirà dal negoziato Usa-Ue sui dazi: la sensazione però è che, comunque, nulla sarà più come prima.   


 

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