04 Dicembre 2025

"I Serd siano autonomi. No all'accorpamento con la salute mentale"

Roberta Balestra, presidente di FederSerd, a Nursind Sanità: "Bene collaborare quando c'è una comorbilità, ma abbiamo bisogno di indipendenza per gestire un modello complesso”

Di Ulisse Spinnato Vega
"I Serd siano autonomi. No all'accorpamento con la salute mentale"

È tornato a surriscaldarsi, almeno a livello istituzionale, il dibattito intorno al contrasto e alla gestione delle dipendenze patologiche. Parliamo di stupefacenti, alcol, tabacco, farmaci, ma anche disturbi comportamentali legati al gioco d’azzardo. La proposta del ministero della Salute di un accorpamento dipartimentale dei Serd (i servizi delle Asl dedicati) con la salute mentale, contenuta nella bozza del Piano di azione nazionale per la salute mentale 2025-2030 (Pansm), non piace a esperti, società scientifiche e operatori del settore: tanto che quando il sottosegretario Marcello Gemmato ha annunciato l’ipotesi di riforma della governance, durante la Conferenza nazionale sulle dipendenze di inizio novembre, la platea gli ha riservato una bordata di fischi. Il tema è sensibile ed ha aperto una frattura in seno al governo, dato che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che ha la delega alle Politiche antidroga, proprio durante la conferenza ha preso impegni in tutt’altra direzione circa il rafforzamento dei Serd e l’implementazione delle loro attività.

Roberta Balestra, presidente nazionale di FederSerd, spiega a Nursind Sanità: “Quello dei dipartimenti integrati è il modello già oggi prevalente nelle Regioni, ma vediamo che non funziona e il settore dipendenze è stato penalizzato nella propria specificità”. Sia i servizi pubblici che quelli del Terzo settore accreditato hanno quindi chiesto di preservare l’autonomia dipartimentale “e Mantovano ha preso atto di questa richiesta”. Poi l’esperta aggiunge: “Assieme alle società scientifiche e alle varie sigle del Terzo settore abbiamo fatto un grande lavoro nell’ambito dei gruppi della Conferenza nazionale. Abbiamo avanzato criticità e proposte su tutti i temi specifici ed è emersa la necessità di avere un dipartimento autonomo. Ma non soltanto”.

Presidente, cos’altro avete chiesto?
Intanto gli adeguamenti di personale e di risorse, su cui comunque è arrivata una prima risposta in legge di Bilancio. E poi il nostro pieno riconoscimento come servizi specialistici in seno alla sanità territoriale.

Il nodo dell’accorpamento con la salute mentale è ancora aperto, tanto che la discussione del piano Schillaci è ferma in Conferenza Stato-Regioni.
Speriamo ci sia un ripensamento. Queste ultime godono di autonomia, ma se il governo detta una preferenza su un determinato modello, è difficile che non si adeguino.

Quali sono le motivazioni che hanno indotto il dicastero della Salute a questa scelta?
Si adduce l’esigenza di una maggiore integrazione in caso di comorbilità tra dipendenze e disagio mentale. Certamente, in tali situazioni dobbiamo collaborare per il bene dei pazienti, ma non può diventare un approccio totalizzante per noi. Abbiamo infatti altre comorbilità: abbiamo pazienti con patologie internistiche, tossicologiche, pneumologiche e tante ancora. Dunque, serve certamente interdisciplinarietà, ma nell’ambito di un’autonomia che consenta di governare un sistema complesso come il nostro, nel quale è necessaria una regia forte, una programmazione e un monitoraggio attento delle risorse e delle attività.

Lei ha parlato della richiesta di un riconoscimento. Come vi collocate rispetto agli altri presidi dell’assistenza territoriale?
Nella conferenza governativa è emerso anche questo tema: di dipendenze non si parla nei curriculum o nei percorsi accademici. Non esistono specializzazioni universitarie per la medicina delle dipendenze, né per medici né per psicologi, infermieri educatori o altre figure. Non esiste insomma una disciplina oggi: ci si forma sul campo e questo è un problema per la riconoscibilità e attrattività dei nostri servizi.  

Come vi ponete rispetto alla riforma dell’assistenza territoriale targata Pnrr e fissata nel Dm 77?
Nella norma le nostre prestazioni, assieme ad altre tipo la salute mentale appunto, sono state indicate soltanto come auspicate e non obbligatore in seno alle Case della comunità. A seguito di un tavolo al ministero, coordinato da Agenas, abbiamo prodotto un importante documento che purtroppo non ha ancora una ricaduta concreta e che non solo fissa i nuovi standard di personale rispetto al vecchio decreto ministeriale 444 del 1990, ma individua una riorganizzazione delle attività su quattro livelli, distinti per fasce di intensità assistenziale.

Come entrano in questa classificazione le Case della comunità?
Proprio il primo livello, il più lieve, si svolge in seno a questa struttura, dentro la quale potremmo intercettare i bisogni più precocemente e dunque prevenire meglio i problemi gravi. Potremmo incontrare le persone per un’azione di counseling, per affrontare i nodi e i rischi di dipendenza, magari assieme a una madre o a una famiglia, spesso evitando il degenerare della situazione. La Casa della comunità, infatti, ha il vantaggio di essere un luogo accogliente o comunque neutro, privo dello stigma sociale che spesso ricade sui nostri servizi.

Dunque, si tratterebbe di una riorganizzazione delle funzioni per una maggiore incisività degli approcci.
Certamente. Il secondo livello prevede invece l’intervento diretto dei Serd. Il terzo e il quarto, a maggiore intensità, chiamano in causa programmi interdisciplinari, anche sulle 24 ore, oppure i ricoveri. Dunque, entrano in gioco i reparti o le comunità terapeutiche.

In altre parole, avere i vostri servizi come obbligatori nelle Case della comunità consentirebbe anche di alleggerire i carichi sugli ospedali?
Oggi la situazione è a macchia di leopardo nelle Regioni. Ma se una nuova norma introducesse il vincolo di presenza dei nostri servizi, potremmo rispondere meglio al cosiddetto bisogno sommerso che sappiamo esserci e che di frequente non si manifesta proprio per lo stigma sociale di cui parlavo prima. Di certo, se ne gioverebbero anche le strutture ospedaliere.  

La sanità digitale e la telemedicina come stanno cambiando il vostro lavoro?
Siamo piuttosto avanzati su questo fronte, anche se poi ogni Regione ha i propri protocolli e sistemi operativi. Intanto c’è il Sistema informativo nazionale per le dipendenze (Sind), che garantisce un flusso obbligatorio sulle attività dalle autonomie verso il ministero. I dati poi confluiscono nella relazione annuale al Parlamento. Peraltro questa piattaforma, che inizialmente riguardava solo alcune azioni sulle droghe, si sta ora allargando a registrare i servizi su alcol e azzardo.

E rispetto al singolo paziente?
Esiste una cartella elettronica, un diario clinico della persona trattata. Senza dimenticare il registro elettronico dei farmaci. Poi, con il Covid, abbiamo implementato l’utilizzo della telemedicina con colloqui a distanza, riunioni da remoto, anche con la rete dei partner o le comunità terapeutiche, a volte persino con i detenuti in carcere. Siamo dentro a questo mondo con l’obiettivo di ampliarlo, soprattutto per favorire l’accessibilità della popolazione nelle aree interne e svantaggiate.



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