06 Dicembre 2024

Nuova malattia in Congo, "Nessun allarme, ma servono indagini sui campioni"

L'infettivologo Cauda a Nursind Sanità: "Al momento ogni ipotesi è lecita. Presto per parlare di patologia virale. Devono intervenire l'Oms e gli altri organismi di sanità internazionali". E l'influenza aviaria? "Difficile il passaggio all'uomo". Il consiglio è: "Cautela doverosa nel consumo di latte crudo"

Di Elisabetta Gramolini
Nuova malattia in Congo, "Nessun allarme, ma servono indagini sui campioni"

Una misteriosa malattia che ha già causato più di 80 vittime su oltre 380 persone colpite, in poco più di un mese, in un’area del Sud-Ovest della Repubblica Democratica del Congo. Da quando la notizia è apparsa sui media l’attenzione si è focalizzata in fretta sulla definizione dei sintomi e sulla necessità di capire di più. Per ora né gli esperti né le autorità sanitarie nazionali e internazionali si sentono di lanciare allarmi: molti di loro sottolineano infatti come la zona in cui si sono verificati i casi sia molto circoscritta sebbene la letalità appaia molto alta. Le informazioni note - e di cui il nostro giornale ha dato notizia - sono che la maggior parte delle persone decedute ha un'età compresa tra i 15 e i 18 anni, che i sintomi includono: febbre, mal di testa, raffreddore e tosse, difficoltà respiratorie e anemia. Ma sulle vere cause si sa ancora troppo poco. A Nursind Sanità, Roberto Cauda, docente di Malattie infettive dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, spiega come la situazione sia incerta e che per ora le necessità sul campo sono "il trattamento immediato e il prelievo di campioni per identificare se è un germe o un virus noto oppure qualcosa di nuovo".

Professore, quali ipotesi circolano sulla definizione di questa malattia?
Il problema è che se ne sa ancora poco. Ogni ipotesi è lecita, ma ogni ipotesi deve essere verificata. Non abbiamo certezze. Per questa zona del mondo vale ciò che dicevano gli antichi: ex Africa semper aliquid novi, cioè dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo.

Lei è stato a lungo direttore del Centro di Ateneo della solidarietà internazionale e conosce bene l’area.
Abbiamo fatto numerose missioni mediche in tutto il mondo e di quell’area in particolare conosco le difficoltà nell’offerta sanitaria. È una zona dove si contano diversi tipi di malattie, dalla West Nile all’Aids.

Cosa sappiamo di certo per il momento su questa malattia?
Sappiamo che dal 10 al 25 novembre ci sono stati 380 casi, ma c’è incertezza anche sui numeri. Il ministero della Salute del Congo dice che alcuni decessi sono avvenuti fuori dall’ospedale, nei villaggi, più difficili da quantificare. Un elemento importante è che sembra che un’alta percentuale dei casi sia stata registrata fra i bambini al di sotto dei 5 anni, come avviene per l’Mpox, mentre la maggioranza dei decessi è fra i 15 e i 18 anni. E siamo inoltre ancora troppo al principio delle ricerche per dire se sia una malattia virale, dovuta magari al cosiddetto spillover o passaggio da animale selvatico a uomo. Devono intervenire gli organismi dell’Oms e gli altri organismi di sanità internazionali per aiutare nella definizione della situazione.

Quali sono le priorità secondo lei?
Innanzitutto il trattamento delle persone colpite. Ci sono stati infatti dei decessi per assenza di trasfusioni, dato che una delle manifestazioni è l’anemia che necessita di sangue. In altri casi invece la morte è sopravvenuta per problemi respiratori. Siamo di fronte ad una malattia dalle caratteristiche sintomatologiche simili ma non uguali a quelle dell’influenza che colpisce prevalentemente le fasce d’età giovanili e determina in queste una maggiore letalità. Le necessità sul campo sono dunque il trattamento immediato e il prelievo di campioni per identificare se è un germe o un virus noto oppure qualcosa di nuovo. Altro problema epidemiologico è il dover contenere una forma di malattia di modo che si possa evitare una diffusione ulteriore.

Potrebbe essere un virus?
Ogni interpretazione è lecita, ma al tempo stesso occorre essere cauti. La malattia mostra caratteristiche simili alle forme virali. L’impressione è che sia una forma trasmissibile che potrebbe rientrare nell’ambito dei virus noti oppure, ma ciò è tutto da dimostrare, nell’area di virus nuovi. È una forma contagiosa perché si sta sviluppando in termini di affezione delle vie aeree e potrebbe essere una forma trasmissibile potenzialmente virale. L’unica nota positiva è che viviamo in un mondo globalizzato che, se da un lato, ci mette più a rischio di venire a contatto con forme che si sviluppano in luoghi lontani da noi, dall’altro ci consente di adottare un approccio diagnostico che in passato era meno frequente. Ora ci sono possibilità di fare studi e di andare a cercare la causa prima impensabili.

Nel frattempo, in Canada, un ragazzo è stato ricoverato per colpa dell’influenza aviaria. Il virus è stato ritrovato in un lotto di latte crudo. Anche qui, occorre alzare l’asta dell’attenzione?
Il problema dell’aviaria va avanti dalla fine degli anni '90. La novità è che prima era legata agli uccelli mentre adesso osserviamo una trasmissione nei bovini. Il passaggio all’uomo appare difficile ma è un campanello che merita il massimo dell’attenzione per evitare situazioni che potrebbero portare a diffusioni. L’uomo nella catena di trasmissione per ora è un binario morto e non ci dovrebbero essere casi secondari. Occorre vedere se l’elemento epidemiologico del bambino ha carattere di eccezionalità. La cautela consigliata nel consumo di latte crudo immagino sia doverosa.

 

 

 

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